Un mercoledì mattina qualunque apro la porta dell’associazione all’alba, per andare a comprare il pane per la colazione, e sento un rumore di sottofondo, un rumore costante, è l’anima della Capitale, è il Rio Rimac.
Rimac è anche il nome di una Municipalidad che in molti conoscono per la sua posizione centrale proprio lì, dietro Plaza de Armas, dietro il Palazzo Presidenziale e la Cattedrale. Ma nonostante questo i turisti e gli stessi Limeñi attraversano a fatica il fatidico ponte e si fermano tutti dall’altra parte. Si perché questa è una di quelle zone che definiscono picanti, pericolose, ma forse è meglio così, lasciano a pochi il privilegio di vedere questo posto così affascinante, così vero.
L’associazione Niños del Rio si trova proprio nel cuore di questa Municipalidad, in uno dei luoghi dove fino a pochi anni fa vivevano, al lato del Rio, centinaia di ragazzi, prima che una politica di pulizia provasse a risolvere il problema con il solito manganello magico senza rendersi conto di aver solo spostato il problema in ogni angolo della città, non pensando minimamente all’attuazione di una politica di assistenza e reinserimento.
L’ Ong nasce circa 12 anni fa per volontà di uno studente francese che davanti a questo scempio della società non ha voltato la faccia ma ha deciso di fare qualcosa, imbarcandosi in un progetto che, piano piano , nel tempo, sta dando i suoi frutti. Sino allo scorso anno, però, la casa accoglieva i ragazzi solo tre giorni alla settimana dalle 2 alle 5 del pomeriggio, realizzando per loro dei taller, senza dare soluzione al problema più grande, la notte. Così nel mese di maggio dello scorso anno, grazie alla volontà delle persone che vi lavorano, si è deciso di dare una svolta, di essere veramente presenti e sporcarsi le mani fino in fondo, spingendosi in un progetto molto più ambizioso: cercare di creare una famiglia per realizzare un progetto di vita a lungo termine per questi ragazzi, aprendo così la casa 24 ore su 24, 7 giorni alla settimana.
La casa ora ne accoglie 9, tra ragazzi e ragazze, senza limiti precisi di età. Sottolineo questo particolare perché molti dei Centri precludono l’entrata ai maggiorenni, come se ogni loro problema scomparisse nel momento di spegnere le diciotto candeline. Tra questi c’è Maycol che ha già compiuto 19 anni, quindi è uno di quelli che per la legge non ha bisogno di aiuto.
Non è facile riuscire ad entrare in confidenza con questi ragazzi, un po’ perché negli anni si sono costruiti uno scudo impenetrabile, un po’ per il fatto che queste situazioni sono molto particolari per noi. Non sono, nella maggior parte, casi di abbandono ma ragazzi o bambini che da soli decidono di andarsene di casa per i motivi più vari, per maltrattamenti o più semplicemente perché a 12 anni si trovano sulle spalle la responsabilità di una famiglia.
Non voglio avere la presunzione di dire di essere riuscito a scalfire questo scudo ma con Maycol qualcosa è scattato. Tutto ha inizio il primo giorno, al mio arrivo, non faccio in tempo a salutare tutti i ragazzi che vengo catapultato con lui e Reyson (un altro ragazzo che vive nella casa) su una combi. Mi dicono: “Accompagnali alla posta” , e tra me e me dico: “Ma questi sono strani, ti pare che non possono andare da soli a spedire una lettera”. Poi di lì a poco scopro che qui per Posta si intende uno dei vari centri di salute pubblica; si perché tutti i giorni Mycol ha appuntamento con le sue 13 pastiglie colorate per combattere il male che lo affligge ormai da anni, la TBC.
Così è iniziato il nostro rapporto, cercando di spiegargli cos’era il Colosseo su una combi affollata di persone, in cui non si riusciva nemmeno a respirare. Da quel giorno é lui a chiedermi di accompagnarlo e, anche se mi tocca svegliarmi all’alba, non dico mai di no perché questo ha fatto nascere tra noi un rapporto più profondo. Adesso, però, basta parlare di me e lasciamo la parola alla sua storia che è molto più interessante di quella di centinaia di film e libri in circolazione.
Nasce ad Independencia, la Municipalidad che si estende lungo Avenida Universitaria precisamente Parada del Carro, alla metro la Uni, che prende il nome dal centro commerciale lì vicino. Sto partendo così da lontano non per scrivere una biografia precisa dal giorno della sua nascita, ma per raccontare che è alla tenera età di 8 anni prende la via della Calle, lasciando la sua umile casa per una casona abbandonata che condivide con altri venti ragazzi che vivono di quello che riescono a racimolare in strada, lascio a voi immaginare cosa e come.
Sapete, non è facile riuscire a fare un racconto lineare perché si deve ricostruire il puzzle delle cose che gli vengono fuori in momenti diversi, per situazioni diverse o solo per il posto che stiamo attraversando. In quella casona ha vissuto per circa 9 anni, intervallato dal tempo di internamento nei vari centri per ragazzi di strada, in abbandono o con problemi di dipendenze, perché non ci meravigliamo, ma qui tutti bevono e fanno uso di sostanze stupefacenti, soprattutto la pasta ( una polverina bianca che si arma in una sigaretta, così me l’ha descritta) e il terocal (una colla), che ha il pregio di far scomparire i crampi allo stomaco dovuti alla fame. Si perché questo e l’altro grande problema con il quale qui si svegliano ogni mattina e con cui si addormentano la sera. Ed è questo uno dei motivi che hanno portato Mycol a farsi un anno e mezzo di reclusione nel carcere minorile del Maranguita.
Un giorno tornando a casa dopo essere andato a carreare, “vedo un signore ubriaco per strada che parla al telefono e decido di rubargli il telefono, non perché lo volessi, ma perché con uno di quelli si mangia bene per un bel po’ di tempo “, racconta.
E così glielo strappa di mano. Suerte vuole che questo signore fosse un poliziotto, che immediatamante lo ferma e lo arresta. La sentenza dice un anno e mezzo, lo devono “riformare”.
Devo dire che forse ci sono riusciti perché lui li dentro non ci vuole più mettere piede,” Non ci entrerò mai più li, le vedi queste?” -e mi mostra le cicatrici che ha sulla fronte- ” Me le hanno fatte li dentro e poi ho capito che rubare non porta a nulla di buono” (il messaggio alla fine è arrivato giusto?). Allo scadere della pena lo hanno assegnato ad un Centro, ma li dentro risiede ben poco. Scappa, non ha più voglia vivere da internato e preferisce tornare nella sua casa, la Calle. Qui contrae il mostro che ancora lo accompagna, la TBC.
Più volte è stato sul punto di terminare la cura ma sempre è ricaduto, sino a toccare il fondo lo scorso anno, quando era ormai in fin di vita. Fortunatamente sono riusciti a strapparlo alla strada e da quel giorno è nato il Maycol che conosco. Metto fine alla storia perché spero che la sua rapida guarigione sia solo l’inizio della sua seconda vita, della sua seconda possibilità.
A volte mi chiedo che faccio precisamente, qual è la mia figura, il mio apporto e la risposta è tutta in queste semplici parole “voglio ringraziare tutti, i ragazzi, gli educatori perché mi hanno appoggiato e continuano a farlo, mi sentivo vuoto volevo morire e adesso ho di nuovo la forza di correre…”