La città dei re

rimacIl pulmino sale a fatica per la strada ripida e minuscola, passa a stento, ma l’autista procede veloce come se conoscesse ogni buca a memoria. Le baracche si stagliano velocemente ai lati: alcune hanno la facciata colorata per nascondere il materiale con cui sono fatte, quello che ormai ho imparato a definire come “fango armato”; altre completamente distrutte sulle cui macerie sonnecchiano alcuni cani randagi.
Il pulmino, che credo sia uscito dalla fabbrica di produzione intorno al 1971, è strapieno di turisti peruviani e stranieri. Dalle casse esce una voce registrata che ricorda alcuni fatti storici che hanno caratterizzato la nascita della città. Il mio sedile ha una molla rotta che a ogni sobbalzo cerca di infilarmisi nella natica e la mia cintura di sicurezza più che una cintura di sicurezza è una fascia da concorso di bellezza, puramente ornamentale. Però non mi lamento, a Rino, il mio amico seduto di fianco, è andata peggio: ha un sedile che praticamente non è attaccato al pulmino e a ogni curva scivola a destra o a sinistra come se fosse seduto su un gommone di un gioco acquatico.

Stiamo sfrecciando attraverso Rimac, uno dei quartieri più piccanti della città come piace definirlo a loro. Molte porte delle case sono aperte e si vedono vecchi  in canottiera che bevono una cervecita guardando la tv, altri invece sono seduti fuori sugli scalini e occhieggiano con aria stanca l’ennesimo pulmino di turisti che sale al mirador di San Cristobal. Le case-baracche finalmente si diradano e la sensazione di claustrofobia per fortuna si allontana. Il vecchio pulmino, che sembra sempre sul punto di abbandonarci al nostro destino, con un’ultima spinta percorre le ultime curve e ci porta a destinazione.
Mi stacco la mia cintura di bellezza, scendo, mi avvicino con circospezione al muretto che circonda tutto lo spiazzo e a una gigantesca croce di ferro e me la ritrovo lì, di fronte ai miei occhi con tutta la potenza della sua immensità: la città dei re, Lima.

Posso vederla finalmente nella sua interezza, o almeno credo. La città si sviluppa a perdita d’occhio. L’oceano si vede solo in lontananza ma non si vede bene c’è foschia. Un grigiore unico pervade il tutto, milioni di case sono state costruite in maniera disordinata in ogni angolo. Nessuna casa è stata terminata in modo da non pagare le tasse che ne deriverebbero. I palazzi si contano sulle dita di una mano, parchi o alberi neanche a pagarli. Sembra una città costruita sul deserto. Guardando meglio noto che di fronte a me ho una collina fatta di case e baracche. Sono costruite tutte talmente vicine l’una all’altra che nascondono la collina che c’è sotto. Sembra un effetto ottico.
Un moto di sconforto mi prende,  mi sembra quasi che la città mi possa inghiottire da un momento all’altro, come farò a vivere in questo caos per un anno?
Provo a girare intorno allo spiazzo cercando di vedere qualcosa che mi rassicuri, ma dappertutto il paesaggio rimane sempre lo stesso. Il grigio e il marrone sono i colori dominanti. La Panamericana, che sembra tagliare in due la città, è letteralmente presa d’assalto da combi (i minipulmini privati che regolano il trasporto urbano), macchine, moto, risciò, taxi e tir giganteschi. Il rumore – uno strano rombo – è talmente  intenso che sembra quasi mi possa sostenere in piedi in caso mi lasciassi andare.
Davide, che vive qua ormai da cinque anni, si avvicina da dietro, e appoggiandomi una mano sulla spalla dice: “Questa che vedi non è che la metà della città. Oggi poi è una bellissima giornata. Da marzo a ottobre il sole non spunta neanche un giorno. La città è sempre invasa da una nebbia che arriva dal mare e viene bloccata dalle Ande che abbiamo subito qua dietro, e così rimane incastrata qui.”
Lo guardo con un’aria scoraggiata e allora, forse impietosito, aggiunge: “Su non fare quella faccia, è una città difficile questo è vero, io ci ho messo parecchio ad abituarmi. I primi mesi stavo sempre in casa e uscivo solo per andare a fare surf. Ma poi a poco a poco scopri che ci sono alcuni quartieri che meritano, alcuni angoli caratteristici, scopri che la gente è super “amable”. Ci starai bene.”
Sconsolato mi siedo sul muretto e continuo a guardare, ma non c’è molto da vedere. È tutto uguale, tutte case basse con i panni a stendere all’ultimo piano. Case e case che si ripetono all’infinito e questa inquinata foschia che la ricopre come una coperta sudicia.
E penso: un anno è lungo, ma sicuramente troverò il mio modo di vivere questa città. I primi giorni dal mio arrivo sono stati molto pieni. Le giornate sono state scandite da lezioni per darci una infarinatura sociale, culturale e politica del Perù, per prepararci a questo anno di servizio volontario europeo che ci attende.
Ancora non sono riuscito a farmi un’idea di quello che mi aspetta, anzi non ho voluto neanche farmela a dire la verità. Mi sono fatto trasportare e ho cercato di tenere le mie aspettative al livello più basso possibile perché una cosa ho imparato: quante meno ne hai più sorprese piacevoli avrai. Altrimenti la delusione sarà la tua compagna di viaggio per tutto il primo periodo.
Un suono penetrante mi ridesta dai miei pensieri. È il clacson che ci avvisa che dobbiamo tornare sul nostro moderno pulmino.
Una volta tutti alle proprie postazioni comincia la discesa dalla collinetta che è decisamente più divertente, sembra quasi di stare sulle montagne russe e a ogni sobbalzo il mio amico rischia di saltare fuori con tanto di sedile.

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Finiamo la giornata a Barranco, uno dei quartieri “bene” di Lima. È il tramonto, un viale alberato porta direttamente all’oceano. Artisti di strada suonano l’ukulele e cajon peruviani per i turisti che ritornano tutti scottati dalla giornata di mare. Altri ragazzi invece vendono churros, braccialetti e gelati cercando di attirare l’attenzione dei passanti. Il clima è disteso e rilassato. Qualcuno si beve un bel bicchiere di pisco. Il sole si sta abbassando a poco a poco sull’orizzonte e colora la scogliera, che delimita la città con l’oceano, di un bel rosa. Fa caldo ma c’è anche una lieve brezza.
Io e Rino ci guardiamo e ci sorridiamo. Dopotutto, la Città dei re non è così male.

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Informazioni su Carlo Botti

Mezzo umbro e mezzo romagnolo, nasce e cresce tra le rive poco salubri del lago di Varese. Durante gli anni di studi classici e giuridici nel grigiore varesino e milanese comincia a sviluppare un’allergia alla sedentarietà iniziando, così, ad intraprendere sortite esplorative all'esterno. Dapprima nella vicina Europa e successivamente sempre più lontano, per la gioia di mamma, arrivando quasi a toccare tutti e 5 i continenti. Aspira a lavorare nella cooperazione, e a cercare di migliorare un poco le cose dando il proprio aiuto. “Tre grandi passioni, semplici ma irresistibili, hanno governato la mia vita: la sete d’amore, la ricerca della conoscenza e una struggente compassione per le sofferenze dell’umanità” (B. Russell)

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