17/05/2014
“Chissà se, come nel film su Berlino, anche a Quito ci sono gli angeli.. bimbi dai visetti sporchi ma angelici e dalle vocine dolci comunque ne ho già incontrati per le strade di qui. Magari salendo sopra Quito avrò le idee un po’ più chiare. Neanche una settimana dopo essere arrivato in Ecuador con i miei compagni e compagne si va a camminare sul vulcano Pichincha, che domina e dà il nome alla regione di cui è capoluogo la capitale dell’Ecuador. Ancora poco abituato ai quasi 3000 metri di Quito mi ritrovo a salire con la cabinovia ai 4100 metri delle pendici del vulcano. L’aria si fa improvvisamente più rarefatta e alla vista si apre una moltitudine di vette, piane, ondulate e aguzze, coperte di verde, grigi e marroni di ogni gradazione e circondate dalle nuvole. I primi giorni dopo l’arrivo in Ecuador sono stati di formazione “residenziale”, senza molte possibilità di uscite e incontri, resi anche più difficoltosi dalla differenza linguistica e culturale, che si spera verrà almeno un po’ mitigata dal tempo… per cui l’escursione sul vulcano si presenta come una boccata d’aria fresca, non solo in senso figurato. Guardando le cose dall’alto spero di avere un po’ di lucidità per capire dove mi trovo. Intorno alla cabinovia si aggrega la parte meno montanara delle persone che sono salite insieme al mio gruppo, per cui con passi soppesati per l’altitudine procedo in direzione del cratere del vulcano. La montagna in ogni parte del mondo riduce le distanze tra le persone, che, quando si incontrano, si scambiano un saluto cordiale o, se la fatica ha preso il sopravvento, un sorriso (che nel mio caso assomiglia più ad una smorfia). Dopo qualche centinaio di metri scorgo tre ragazzi della sierra che corrono dietro a un pallone e giocano a “torello”, subito li invidio perché riescono a correre dove io faccio fatica a camminare, resto un po’ a guardare con la voglia di potermi unire a loro e giocare anch’io. Supero e vengo superato da ecuadoriani e da persone di varie parti del mondo. Man mano che si procede in direzione della sommità del vulcano (quasi 5000 metri: mai stato così in alto) la classica fila o processione degli escursionisti si allunga e si assottiglia per cui dopo un po’ mi accorgo che sto camminando da solo; i pensieri si fondono con la natura che mi circonda e lo sguardo non ancora del tutto annebbiato dallo sforzo coglie le particolarità dei cambi di vegetazione (erbe, piante, muschi e rocce mai viste) e fauna (un paio di falchetti che planano liberi). Mi sembra di avvicinarmi sempre di più al cielo fino ad avere la sensazione di poterlo quasi toccare (la nonna che non è mai stata da queste parti mi aveva avvisato di questo). Se mi giro vedo Quito con la sua forma allungata (40 km e più di lunghezza per meno di 10 km di larghezza): l’impressione caotica e contraddittoria che mi ha accolto all’arrivo in città è ora lontana in tempo e spazio. Mi fondo sempre più con il vulcano che si fa solitario e maestoso, spero che, arrivando sulla vetta, avrò le risposte che cerco; forse la montagna mi dirà in anticipo se troverò quello che cerco in Ecuador. La montagna a volte accoglie a volte respinge, oggi sento che mi invita, almeno per un giorno, a superare i miei limiti fisici e mentali, o ad avvicinarmi terribilmente ad essi. Sembra che sia arrivato sul cratere del vulcano. Senza più forza (come farò a scendere? Io che faccio più fatica in discesa che in salita) mi unisco ai pochi che ce l’hanno fatta fin qua su; mi siedo su una roccia che si affaccia sul precipizio del cratere e guardo giù… pensieri si affollano nella mia testa ma un volto dagli occhi buoni sento che è qui vicino a me all’inizio di quest’anno.”