Nel blu

Colonia Molina”. Il micro che mi porta via dalla città porta questo nome, è un cartello minuscolo, a volte un po’ sbiadito, se non stai attenta ti sfugge e allora devi aspettare un’altra ora e mezza, quindi aguzzi la vista, arrivi alla fermata con largo anticipo, altrimenti perdi il pranzo con i ragazzi, perdi quel momento di convivialità fatto di urla e scherzi durante i quali spesso, pur non comprendendo una parola, sorrido. Inizia così l’avventura quotidiana, su quel “micro” stracolmo di persone, ognuna con la propria storia, i propri desideri e le proprie paure. Mi ha sempre affascinato, sui mezzi pubblici, mentre aspetto quasi assopita l’arrivo a destinazione, fantasticare sulla vita delle persone, domandarmi quali siamo le loro paure più nascoste, la cosa che li ha resi più felici nella vita, i loro segreti inconfessabili, e a volte immaginare per loro una storia, una vita che sta solo nella mia testa. E allora eccomi, tra il sapore della polvere in bocca e l’odore dell’aglio nell’aria a causa della “cosecha”, la raccolta, che mi trovo a fantasticare sulla vita delle maestrine che tornano a casa dopo una giornata di lavoro, sui bambini che, con un’arancia in mano tornano a casa. Che avranno fatto oggi? E cosa faranno ora? La signora seduta davanti a me è felice? I suoi occhi, quando si alza per lasciare il micro mi dicono di sì. Ma saranno abituati a mentire? O dovrei forse credere a quella luce che sprigionano i suoi grandi occhi castani? Assorta tra questi pensieri mi rendo conto che è ora di chiudere i finestrini appena il “bondi” abbandona la strada asfaltata per immettersi in una larga stradina di campagna.  Appena questo succede, anche chi, stanco o annoiato si è assopito, si risveglia, prima di tutto per il trambusto e poi per la polvere, che pian piano si impossessa di tutto lo spazio che ha a disposizione fino a impossessarsi di te stesso, delle vie respiratorie, degli occhi, di ogni parte di te. Se non si sta attenti si arriva persino ad assaporarla la polvere.

Dopo pochi minuti, ci si rende conto che è ora di scendere, l’ora in bus è terminata e una folla di bambini appena usciti da scuola mi fa capire che la giornata è iniziata e che devo lasciare i miei pensieri sul bus, e lo devo fare in fretta: il bus si riempirà fino al limite delle sue capacità e sarà impossibile scenderne. Arrivo ancora frastornata all’ingresso del centro educativo, un portone azzurro che fà da facciata ad un edificio di mattoncini rossi. Ancora pochi passi e l’odore delle “acequias” mi darà il benvenuto. Le acequias non sono altro che dei canali ricolmi d’acqua situati al lato delle strade per la raccolta della stessa, senza alcuna protezione, insomma, ci si deve convivere per non venirne risucchiati, anche se so che prima o poi questo succederà, e se mai dovesse succedere spero almeno che sia vuota. Seduta al bordo di un’ acequias (si può anche diventare amici) aspetto un po’ affamata che arrivi il micro con i ragazzi, con un po’ di fortuna questo succede nell’arco di 15 minuti, di solito, in mezzora. Arco di tempo infinito quando si inizia ad avere fame. Ed ecco che la mia mente ricomincia a galoppare, a cucire una storia addosso ai giovani che tornano da una giornata di lavoro su un carretto sgangherato, alla ragazza molto più giovane di me con tre figli, che ogni giorno passa davanti al centro e sorride, quali saranno i suoi pensieri sul cuscino? Sarà mai andata al di là di quelle montagne dai contorni a volte così nitidi e definiti e a volte così sfocati che sembrano quasi inesistenti? Arriva Emilio, il custode, l’amico, il padre, che con il suo mazzo di circa 20 chiavi e il suo lavoro decennale è come l’angelo custode del centro, conosce la storia di ogni ragazzo e basta un suo sorriso o una sua battuta per capire che si, sarà una bella giornata. Arriva il micro e i ragazzi saltano giù: “Hola Profe como anda?” Non mi sono ancora abiutata al Profe, io che mi sento una di loro, che vedo annullata ogni differenza, d’età, nazionalità e appartenenza sociale, perchè qui siamo tutti uguali, le differenze si annullano. Di fretta si va verso la cucina, un crogiuolo di odori, un piatto preparato con amore dalle due “cocineras” del centro, e poi da li andiamo al “comedor” una stanza buia e odorosa che, dopo aver mangiato diventa un’aula. Lì, in mezzo a cartine e mappamondi  si mangia, si ride e ci si prende un po’ in giro. Una chiacchierata in cortile e poi si inizia, è sempre difficile iniziare, coinvolgerli, incuriosirli, ma non c’è fretta, si aspettano i loro tempi e poi con calma e tranquillità si inizia a lavorare. Vedo i loro occhi illuminarsi, si fa teatro oggi, per un paio d’ore si può fingere di essere qualcunaltro, di trovarsi in altri luoghi, sotto un altra porzione di cielo, in tempi antichi, mai vissuti o che mai esisteranno e tra un passo di danza e un mate si può iniziare a sognare, a dipingersi la faccia di blu, vedersi spuntare un paio d’ali bianche che spazzano via il male in un secondo, scoprire, che a volte questo può essere sconfitto e che tutti insieme si può volare verso un futuro migliore.

Il tempo passa in fretta a Colonia Molina e ci si rende conto che è ora di fare merenda e poi andare a casa, che il tempo a disposizione per oggi è finito. E allora eccomi di nuovo al bordo dell’ acequias, stanca ma soddisfatta a porgere la guangia a tutti i ragazzi. “Ciao Profe, nos vemos manana”. Arriva il micro, i ragazzi ci saltano sopra e tornano a casa, noi aspettiamo che il micro dia “la vuelta” e che ci porti in città, dopo una giornata di sabbia, sole e sorrisi. E così, ogni giorno, mentre torno casa chiudo gli occhi e cerco di immaginare come saranno i ragazzi tra dieci anni, se avranno coronato i loro sogni, se riusciranno a mettere le ali e volare lontano.

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