Bagamoyo, 15 dicembre 2013
Sono quasi a metà del mio SVE qui a Bagamoyo, in Tanzania e riflessioni e primi bilanci vengono quasi naturali..Proprio questa settimana ho partecipato a un workshop di due giorni sui diritti umani organizzato dal CVM e rivolto a tutti i suoi partner. C’era Bagea, l’associazione con la quale collaboro, ma anche tante altre associazioni che sotto la guida del CVM portano avanti la promozione dei diritti dei gruppi più vulnerabili qui nel distretto di Bagamoyo, ognuno concentrandosi su aspetti particolari. C’era UWAMABA, l’associazione che promuove i diritti delle persone affette da HIV/AIDS nel distretto. C’era BAYOICE – Bagamoyo youth information center, un’associazione locale di e per i giovani, che promuove attività e sensibilizzazione in materia di malattie sessualmente trasmissibili, HIV/AIDS, importanza dell’educazione, violenza di genere. C’era MUNGANO, l’associazione delle bar workers, le ragazze che lavorano come bariste o nelle guest house, nata per tutelare e promuovere i loro diritti lavorativi e sociali. C’era BADO, Bagamoyo development organization, una nuova realtà che si impegna in attività di promozione sociale ed economica. C’era WANDELE SACCOS, la cooperativa di microcredito locale nata a seguito delle attività del CVM legate alla concessione dei fondi rotativi a gruppi di donne e ragazze che sta cominciando a rafforzarsi sempre di più.. e tanti altri..associazioni e volti che ormai comincio a conoscere.
La mia educazione è stata “infarcita” dalla parola “diritti umani”: a scuola, all’universtà, per televisione, sui giornali, a seminari di approfondimento..in Europa è una parola che senti spesso sulle nostre bocche. Con un’accezione che diventa sempre più ampia, più omnicomprensiva, quasi filosofica, senza però la sicurezza che nella quotidianeità i diritti più o meno importanti vengano rispettati davvero. Ero molto curiosa di vedere come sarebbe stato stato organizzato il workshop, curiosa di vedere come si sarebbe affrontato il tema dei diritti umani qui a Bagamoyo, quello che sarebbe venuto fuori dai dibattiti.. Forse sono arrivata al worshop immaginandomi gli stessi dibattiti articolati, complessi, che si perdono in mille dettagli e sfumature dei termini che facciamo nelle nostre università o nelle nostre tavole rotonde..
Tutto il mio ragionare è stato messo in discussione fin dal primo giorno di worshop. Appena finite le presentazioni e la spiegazione sul senso del seminario – capire e discutere sui termini e sulla legislazione esistente in Tanzania in materia di diritti umani e nello specifico dei diritti del bambino e delle donne- siamo stati divisi in tre gruppi, ed ad ogni gruppo è stato chiesto di rispondere ad alcune domande preliminari: 1. Che cos’è un diritto? 2. Cosa sono i diritti umani? 3. Qual è la qualità/caratteristica dei diritti umani?
Il worshop era naturalmente in swahili, e cosi io avrei voluto defilarmi, ma i membri del mio gruppo hanno chiesto anche a me di dare il mio contributo, aiutandomi con l’inglese. Ho subito cominciato a elaborare nella mia testa la definzione che fosse la più corretta e completa di “diritti umani”, ripescando nella memoria gli infiniti corsi di diritti di tutti i tipi seguiti in università, preoccupandomi di dare definizioni molto articolate intorno a termini come universalità, reciprocità etc etc. Gli altri membri del gruppo mi hanno preceduto. Spiazzandomi un po’. “I diritti umani sono il diritto alla vita, il diritto a un’educazione di qualità, il diritto alla salute” hanno detto. Cose concrete, cose molto ben determinate. Che forse da un punto di vista giuridico non rispondono appieno alla domanda “cosa si vedono tutti i giorni qui a Bagamoyo e alle necessità che vengono sentite come le più urgenti e più bisognose di essere definite “diritti”.
Ancora, se proprio c’era da fare un elenco di diritti, io avrei sicuramente inserito il diritto alla libertà. Libertà di pensiero, di parola, di stampa. Concetti a cui in Europa si è molto legati e che io stessa considero non parole vuote ma diritti fondamentali da difendere e valorizzare. Ma nessuno dei miei compagni ci ha pensato o l’ha nominato. Per loro, era molto più prioritario parlare di diritto all’educazione di base, in un paese in cui c’è un altissimo tasso di abbandono scolastico, soprattutto femminile, per ragioni culturali e sociali ma anche economiche, visto il costo proibitivo per molto famiglie legato alla scolarizzazione (acquisto della divisa scolastica – obbligatoria-, costo dei pasti, del trasporto e dell’alloggio per i ragazzi che vengono da lontanto, soprattutto per quanto riguarda la scuola secondaria..). Come cambia la priorità di necessità e diritti da un paese all’altro! Come cambia anche il significato che diamo agli stessi termini. Penso per esempio al fatto che quando in Italia parliamo di difesa del diritto all’istruzione, parliamo di riforma universitaria, di fondi per la ricerca, di tirocini retribuiti..quanto è grande il divario! Già solo questo primo momento di confronto mi ha fatto riflettere moltissimo.
Dopo avere chiarito un po’ di definizioni preliminari, ci siamo addentrati più nello specifico sul tema dei diritti del bambino. Anche qui, tanti spunti di riflessione. Si è arrivati a parlare del problema del lavoro minorile. In Tanzania esiste una legge che regolamenta la situazione e fissa limiti di età per diverse categorie di lavoro: fino ai 12 anni i bambini non possono lavorare. Dai 12 ai 15 anni possono lavorare in casa come “aiuto domestico” per la famiglia. Dai 15 possono cominciare a essere assunti regolarmente. Ad un certo punto il facilitatore del workshop ha chiesto ai presenti chi avesse in casa una ragazzina come aiuto per i lavori domestici. Si tratta di una pratica diffusissima qui in Tanzania, come in tanti altri paesi africani: prendere in casa una ragazzina che aiuti con le pulizie, la prepazione dei pasti, i lavori domestici. Spesso si tratta di ragazzine provenienti da famiglie povere o che cercano di mettere da parte i soldi per pagare la scuola secondaria. Nessuno qui ci vede di niente di strano. È un modo per avere un aiuto in casa dando qualche soldo a chi ne ha bisogno. Io, con la mia sensibilità italiana, faccio ancora fatica a considerarlo “normale”, e un po’ la domanda del facilitatore, fatta a membri di associazioni che si battono per la tutela dei diritti dei bambini, mi ha toccato. In diversi hanno alzato la mano. Il facilitarore ha chiesto l’età delle ragazzine, complimentandosi per il fatto che nessuno di loro avesse preso in casa una ragazzina fuori dai limiti di età previsti dalla legge. Quello che per me era comunque un mancato rispetto dei diritti bambini (il fatto di farli lavorare) veniva invece considerato un primo passo per una migliore tutela proprio di quei bambini. Anche qui, ho cominciato a pensare alla differenza che esiste tra il contesto nel quale sono cresciuta e quello in cui mi trovo a vivere ora. Un contesto nel quale comunque è normale che tutti i bambini, anche se non formalmente impiegati, “lavorino”, per esempio andando a prendere al pozzo o alle cisterne l’acqua in taniche da 10 o 20 litri (che io non riesco neanche a sollevare), o prendendosi cura dei fratelli, o aiutando la famiglia nelle vendita di frutta o verdura.. un contesto nel quale la nozione di “lavoro”, “diritto”, “tutela” forse non possono avere le stesse dimensioni che sono abituata ad utilizzare io. Un contesto nel quale credo sia necessaria molta attenzione e precauzione nel giudicare e dare pareri.
Il workshop è continuato a lungo, con bellissimi momenti di dibattito e di confronto sulle esperienze delle diverse associazioni. Per esempio, il secondo giorno di seminario, che era dedicato ai diritti della donna, è stato bellissimo vedere le differenze tra i diversi tipi di matrimonio previsti in Tanzania, quello “governativo”, quello islamico e quello cristiano, spiegati non solo tramite i testi di legge, ma direttamente dai partecipanti appartenenti alle diverse confessioni, che si sono confrontati sulle proprie specificità trovando poi più punti in comune di quello che pensavano. C’è stato spazio per le domande e per i chiarimenti, con i facilitatori che aiutavano a comprendere certi passaggi dei testi di legge. C’è stato spazio anche per le risate davanti a un piatto di riso condiviso. Per me è stata soprattutto l’occasione per “uscire” un po’ di più da me stessa e da ciò che consideravo e forse considero come delle certezze. Parlando di diritti umani, forse è vero che sui manuali di diritto si possono trovare definizioni “universali”, e credo davvero che la qualità di un diritto umano come tale debba essere e sia il fatto di appartenere all’Uomo, ad ogni uomo indistintamente, senza divisione in categorie, gruppi, senza eccezioni. Ma penso anche che quello che questo workshop e più in generale questi mesi in Tanzania mi stiano aiutando a capire è il bisogno di guardare sempre prima all’uomo, all’uomo nel suo contesto particolare, all’uomo nel suo tempo e nella sua storia, che qui in Tanzania è diversa dall’Italia o dalla Spagna o dalla Germania. Il bisogno di declinare e sfumare quei diritti nel contesto in cui ti trovi, senza voler per forza imporre qualcosa. Voglio dire, credo ci voglia molta cautela nell’affermare come assolute nozioni e definizioni che forse sono validi e hanno un certo valore per me ma possono averne un altro per altre persone. Anche questo è un diritto umano. La tolleranza. Il rispetto delle diversità. Credo che solo partendo da questo si possa pensare di capire un po’ meglio l’altro e entrare un po’ di più nella sua storia. E questo non vale solamente per il mio rapporto con i tanzaniani.
Ma vale, credo, per l’incontro con ogni uomo diverso da me.