Sono io che mi piego all’Africa…e ne sono felice!!!

Varela

Varela

Il mio sogno, da sempre, era l’Africa. Quando ero piccola chiedevo sempre a mia madre di adottare un bambino africano, volevo un fratellino. Al mare, diverse volte, con ben due frigoriferi pieni di bibite, siamo rimasti senza acqua perchè io offrivo tutto ai senegalesi che passavano in spiaggia (tuttora lo faccio) e appena potevo, acquistavo qualcosa, li invitavo a sedersi sotto il nostro ombrellone e a raccontarmi chi fossero, da quanto tempo stessero in Italia ecc. Ero così attratta dal loro mondo. Ho letto tantissimi libri sull’Africa, storie di vita vissuta, ma anche tanti libri di poesie.Ho scelto di studiare sviluppo e cooperazione internazionale per arrivarci, in un modo o nell’altro.

Non ho superato un colloquio in Banca (fatto in un momento di disperazione lavorativa) perchè alla domanda dello psicologo su quale fosse il mio cartone animato preferito io ho risposto “Fiocchi di cotone bianchi per Jeanie” e me ne sono partita con il mio discorsone su democrazia, solidarietà e uguaglianza. Non potevo essere per niente profittevole per una banca.

Eliminata i-m-m-e-d-i-a-t-a-m-e-n-t-e. E io direi: “meno male!”, non faceva per me.

Ho lavorato, fatto tirocini e volontariato in mille uffici che si occupavano di progetti in diversi Paesi africani, e io sempre lì, con la speranza di poter partire. Ho fatto mille applicazioni per partire in qualsiasi zona del mondo, ma l’Africa era sempre lì, dentro di me e in qualche modo avrei dovuto farcela.

Nel 2013, scovare, preparare lettere di motivazione e presentazione, e inviare applicazioni era diventato il mio lavoro preferito. E, non so né perché, né per come, ho fatto infinite applicazioni per la Guinea-Bissau, un paese mai sentito, se non solo di nome, per quanto riguarda la cooperazione. E allora mi lanciavo su internet a cercare informazioni, foto e qualsiasi cosa potesse interessarmi. Ogni volta che preparavo la lettera e inviavo la mia candidatura per questo paese, sentivo qualcosa dentro, sentivo che, se fossi partita, sarei andata sicuramente in Guinea-Bissau; lo sentivo forte, in quello spazietto tra lo stomaco e il cuore, dove si racchiude il sesto senso.

Lo dissi anche ai miei amici più stretti. E infatti così è stato. La selezione è stata lunga, da luglio a novembre; il 4 novembre ho ricevuto la tanto attesa mail e… che emozione, che ansia! Avevo quasi paura di dirlo ad alta voce… partivo in Africa, in Guinea-Bissau.

Questo “Bissau” che tutti dimenticano e che con tutte le Guinee che ci sono nel mondo, ho ricevuto un messaggio di congratulazioni per il mio trasferimento in Nuova Zelanda. I successivi due mesi sono stati una corsa contro il tempo, avevo da sistemare tante cose, passaporto, vaccini, roba, medicine, preparazione pre-partenza Roma-Torino. Non ho avuto tempo per cazzeggiare e avevo una forza inspiegabile nel preparare il tutto, seppur con un mal di denti tremendo e con la partenza che doveva essere prima il 4, poi il 6 ed infine il 7 gennaio; mi sembrava di non essere mai pronta. Ma pronta o non, sarei partita. Le valigie strabordavano ed erano al limite anche per quanto riguarda il peso, le ho chiuse alle 2.15 del 7 gennaio con esattamente 4 amici miei che ci salivano sopra. Ormai non si torna più indietro, è ora di andare. Saluti veloci ed emozionanti la mattina e via in aereoporto.

Cagliari-Roma, Roma-Casablanca, Casablanca-Bissau, un viaggio lunghissimo, stipata nel sedile centrale, con le gambe strette strette, le mie due cene marocchine a base di pollo e manzo insaporiti da una spezia fortissima, il mio paninetto nano, con un sacchettino di salmone nano tanto carino, una sorta di philadelphia sempre nanetta, uno yogurt supersodo ed una bella merendina di nome “Moretta”. L’atterraggio è stato molto emozionante, le ruote dell’aereo toccavano finalmente terra guinense e io, appena affacciatami dal portellone, potevo sentire come l’odore dell’aria fosse diverso.

Ero pronta a scendere la scaletta e a immergermi in questo nuovo mondo. Ecco, magari sfilando il mio maglioncino a collo alto che in Italia mi proteggeva dal freddo. Le valigie non ci sono, (io nel mio bagaglio a mano ho solo roba tecnologica, un pigiama, dei leggins e un paio di ciabattine) arriveranno tra due giorni.

La prima notte crollo, sono stanca e adrenalinica allo stesso tempo. Ogni tanto apro gli occhi, non riconosco il luogo in cui mi trovo e ricostruisco velocemente il tutto: “Sono in Guinea-Bissau, ho deciso io di venirci, sono stata selezionata, ho preso l’aereo stamattina presto, ok, posso riaddormentarmi”.

Faccio diverse volte questo ragionamento per diverse notti e ancora adesso mi capita di farlo. Durante la prima uscita l’impatto è forte, case bellissime, illuminate, dotate di ogni comfort e accanto la povertà più estrema. Nonostante ciò sono tutti sorridenti, i bambini ti salutano, ti indicano e gridano: “Branca, branca!”. Le loro partite di calcio sono meravigliose. I genitori sorridono. Per strada, camminano e attraversano dei maiali, come fossero cani. Alzo gli occhi verso gli alberi e scorgo un branco di avvoltoi. Dalla jeep vedo un pitone che occupa metà carreggiata. La terra rossa penetra dentro i polmoni, in gola, nel naso, tanto che quando me lo soffio mi viene da osservare bene il fazzoletto perchè quasi mi sembra sangue. Osservo il mercato. Ogni bancarella è composta da tanti piccoli mucchietti di frutta e verdura, quasi fossero delle piccole piramidi. Il cibo ha un sapore diverso, il riso è onnipresente, le banane sono nanette e mi verrebbe quasi da non mangiarle perché mi fanno tenerezza, nonostante l’ottimo sapore. La papaya non l’avevo mai mangiata, è un misto tra una zucca e un melone, non ha un sapore fantastico ma la mangio comunque, dato che aiuta (nello specifico) ad espletare le funzioni fisiologiche.

Si, perchè in realtà ero pronta (visti i racconti di tante persone) ad affrontare la diarrea in tutte le sue forme con fermenti lattici, Enterogermina, Dissenten, Normix e chi più ne ha più ne metta, e invece mi ritrovo a essere una pecorella costipata e influenzata con 32° C in Africa (ma che storia è???).

Dopo una lunga attesa arrivano le tanto desiderate valigie, ma io da furbona quale sono, vado in aereoporto senza i tagliandini e solo grazie a Giovanni (un ragazzo siciliano che a Bissau conoscono tutti – qui è un fenomeno) riesco a passare, a ritirarle e ricevo pure una proposta di matrimonio dalla guardia aereoportuale . Aiuto con grande forza (mi sentivo Hulk) a caricarle sulla jeep e torno a casa.

La mattina dopo mi sento superfelice, ho la mia roba, a colazione bevo il latte e mangio il pane fresco… cosa voglio di più dalla vita? I giorni proseguono veloci e lenti allo stesso tempo, mi sembra di essere qui da tantissimo tempo perché tutto è molto intenso. Non c’è tempo per la noia. C’è sempre qualcosa da fare. Facciamo pure i documenti per la carta di residenza a Bissau: “Agora Eu vivo em Bissau”.

Visitiamo le carceri e visioniamo il relativo progetto. É veramente tutto molto bello e intenso, gli odori, gli sguardi, il caldo, le strette di mano, tutto mi lascia una sensazione molto forte, la sento sulla mia pelle.

Ogni giorno è una scoperta, nulla è mai uguale. Tutte le cose che ho sempre fatto, assumono una forma diversa, anche le cose più semplici, i gesti, le azioni che faccio quotidianamente assumono un altro valore. Alzarsi la mattina, lavarsi, mangiare, andare in macchina e in moto, cucinare, poter usufruire di luce e acqua (altrimenti doccia con le bottiglie), guardare il tramonto ( bellissimo, con una fantastica palla infuocata e rossa che velocemente cala e lascia spazio alla luna e ad un meraviglioso cielo stellato) e andare a letto: ogni azione si appropria di un posto ben definito nella tua vita, con dei passi ben delineati da seguire, senza i quali ne scaturirebbero tante conseguenze.

Niente è fatto a casaccio, tutto ha un suo perché. Il sonno, il dormire qui è totalmente diverso. Quante volte mi sono addormentata nei posti più disparati? In macchina, in treno, in autobus… beh, qui mi sento spesso stanchissima, forse per la temperatura, forse perché le giornate sono intensissime. Salgo in macchina e Morfeo mi chiama intensamente. Io, con i miei deboli sensi umani, vorrei cedere e lasciarmi andare, ma c’è una forza più forte (scusate il gioco di parole) che vince su tutto e che mi tiene sveglia e vigile: è la forza dell’Africa. Lo sento dentro che non posso perdermi nulla, devo assaporare, ascoltare ed emozionarmi per tutto. Le grosse buche sulle strade rosse non sono messe lì a caso, ti fanno balzare all’improvviso e ti lanciano un messaggio: “ehi, svegliaaaaaaaaaa, non puoi dormire, non vedi quello che ti perdi?” e a ogni colpo di sonno, a ogni balzo che fai, ti senti in colpa. BASTA, DEVO STARE SVEGLIA. Anche il sonno notturno si limita alle sole ore di buio, mi sveglio appena la luce penetra dalla mia finestra e sono pronta ad affrontare la lunga giornata che mi aspetta, che non sarà mai meccanizzata e identica a quella precedente. Mi alzo e faccio tutto ciò che c’è da fare, anche ciò che in Italia non avrei mai fatto o che avrei fatto con 1800 lamentele.

Sono io che mi piego all’Africa, glielo devo, è il nostro patto; non è uno sforzo e ne sono felice. E la notte, mi addormento sorridente, (cosparsa di Autan Tropical e totalmente assuefatta al Bio Kill) sdraiata sul mio letto a semibaldacchino (che ho sempre desiderato) e mi sento protetta sotto la mia zanzariera bianca.

 

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