“La mia bambina ha una bambola,
e la sua bambola ha tutto:
il letto, la carrozzina, i mobili da cucina, e chicchere, e posate, e scodelle
e un armadio con i vestiti sulle stampelle in folla, e un’automobile a molla
con la quale passeggia per il corridoio quando le scarpe le fanno male.
La mia bambina ha una bambola,
e la sua bambola ha tutto, perfino altre bamboline più piccoline,
anche loro con le loro scodelline, chiccherine, posatine eccetera.
E questa è una storiella divertente,
ma solo un poco,
perché ci sono bambole che hanno tutto
e bambini che non hanno niente.”
“Bambini e bambole” di G.Rodari
I bambini nascono tutti uguali e con i medesimi diritti. E’ il contesto in cui vivono che li fa diventare “certi bambini” (espressione presa in prestito dal titolo del film di Frazzi, nonchè romanzo di Diego De Silva).
Tantissimi sono i bambini con il visino bruciato dal sole che dormono, mangiano e giocano tra i banchi del mercato di Avelino-Caceres, il più barato di Arequipa. Un giorno stavo facendo la compra, quando una bimba, di 4 o al massimo 5 anni, cattura la mia attenzione invitandomi a giocare con lei. E’ un gioco semplice: devo essere brava (ma nemmeno tanto, poi) a fingere di non vederla quando si copre il viso con una vecchia maglia in vendita, anche se il resto del suo corpicino si vede!
Qui in sud-America, sono molti i bambini che crescono in strada…quasi ci si abitua a vederli; mentre molti dei bambini dei contesti del cosiddetto “Primo mondo” vivono su internet. I primi imparano la vita da piccoli, ai secondi viene concesso più tempo; i primi si relazionano con i loro pari guardandoli negli occhi, i secondi con gli altri avatar o su facebook; i primi scoprono che i frutti crescono sugli alberi e non sugli scaffali del supermercato- come mi ha detto una volta un bambino italiano; i primi riescono perfino a giocare con un vecchio cd trovato in terra, immaginando di avere un frisbee, i secondi riescono ad apprezzare molto di più l’ultima app dell’ I-phone. Purtroppo, forse, a questi ultimi lentamente i sensi si atrofizzano, mentre i bimbi della strada bramano la vita…anche se la vita gli ha dato molto meno.
Durante la mia permanenza nel vivace Sud-America, ho incontrato tanti bambini. Molti di loro, troppi, non hanno molto tempo per giocare…
Ines è una di loro. E’ la prima bambina incontrata qui, che non porta con sè una bambola, bensì un carrellino di caramelle. Non sono per lei. Sono il suo lavoro: deve venderle. Sono le 2 di notte quando si imbatte nel nostro gruppo di gringo e con un sorriso che farebbe sciogliere il cuore più duro e due occhietti profondi, chiede di dove siamo e si illumina: “Mi sueño es de ir a Italia”. E poi con un’ingenuità spiazzante, chiede: “E’ vero che in Italia si mangia solo fideos (pasta)?”
Julio è uno dei bimbi lustra-scarpe che incontro in Bolivia, a Sucre. Sembra faccia parte di una vera e propria impresa di piccoli lavoratori: tutti radunati nella piazzetta, seduti sul bordo della fontana. Qualcuno di loro si concede un gelato prima di tornare a braccare qualche turista, ammaliandolo con la promessa di fargli tornare le scarpe come nuove, ma ancor più con il suo dolce visino. E poi, la vista di Julio, un bambino, boliviano, di appena 9 anni con gli abitini e le mani sporche del suo lavoro, inginocchiato ai piedi di un turista, gringo, mi lascia di stucco e mi stringe dentro: mi sembra l’emblema di questo paese inginocchiato ancora ai suoi conquistadores.
Allora provo ad avvicinarmi, spinta dalla voglia di farlo rialzare. Alla fine, però, riesco solo a scambiarci due parole. Mi dice che lavora solo la domenica, mentre tutti gli altri giorni va a scuola. Purtroppo, non so se credergli.
All’interno del mercato di Sucre, questa volta è una vocina a catturare la mia attenzione. Grida ininterrottamente: “Correo, cooorreooo!” per attirare i suoi clienti. E’ un bambino che portà con sè un blocco di giornali più alto di lui.
Girovagando ancora per Sucre, mentre nel parco tanti bambini scorazzano da una giostra all’altra, due sorelline corrono da una parte all’altra della strada che costeggia il parco, rischiando di essere investite per inseguire il passante di turno, al quale vendere chewing gum alla fragola, indirizzate dalla loro mamma che se ne sta seduta a filare la lana in un angolo de la calle.
In un altro angolo, un bambino dal fisico slanciato, si esibisce come un artista del “Cirque du Soleil” con il sole che gli fa da riflettore. Intorno, purtroppo, non c’è un pubblico estasiato ad avvolgerlo in scroscianti applausi, ma auto in fila pronte a ripartire con il verde del semaforo.
A Cuzco, sullo scalone della Cattedrale, un piccolo venditore di portachiavi riordina la sua merce con minuzia. Una minuzia che forse, un suo coetaneno più fortunato potrebbe usare solo con i suoi giocattoli preferiti. Ma forse no: ci penserebbe la sua mamma.
Nell’ultimo dei miei viaggetti da volontaria in ferie ( e dunque, squattrinata!), un bambino, notando il mio affanno, mi rincorre per vendermi un tour a cavallo. Io rispondo (ed ahimè, è la verità): “Ho paura dei cavalli!Lo siento!”. E lui, uno scricciolo vestito da ometto, mi dice: “Non sono tanto grandi e sono buoni!”. Avrà all’incirca 7 anni, mentre io ben 26, ma riesce a farmi sentire piccola piccola.
E piccola piccola e con un grande senso di impotenza, mi sono sentita di fronte ad ognuno di questi “certi bambini”.
Non so cosa dire ancora: solo che è complicato concludere quest’articolo senza cadere nella retorica speranza che un giorno “certi bambini” siano solo un brutto ricordo del passato.
Il Sud America, ancora oggi, invece, pullula di “certi bambini” ed io, ricordo tutti quelli che ho incontrato. Ricordo i loro sguardi in maniera nitida. E spero di non dimenticarli perchè sono il bagaglio più “pesante” che riporterò con me in Italia.
(Ringrazio il mio amico Vito Esposito, come me volontario SVE, per la gentile concessione di alcune immagini che è riuscito a catturare)