La prima volta, qui a Lima, che mi hanno chiesto che cosa pensassi dei bambini e degli adolescenti lavoratori, la mia risposta è stata: “Per me è una figura del tutto nuova”. Al che mi hanno risposto: “Nuova? Sei sicuro? Avresti dovuto chiederlo a tuo nonno, o al tuo bisnonno”. Poi mi hanno domandato: “Credi che ci sia lavoro minorile nei paesi ‘sviluppati’, in Europa?”. E io: “Credo di no!”. “ No? Sei sicuro? Hai mai pensato ai bambini che lavorano nella televisione? Nel cinema? Quei ragazzi ricevono un compenso per quello che fanno, senza contare tutti i movimenti organizzati di ragazzi lavoratori presenti in molti Paesi europei e anche nella tua Italia”.
Mi sono reso conto che stavo affrontando un discorso su cui ero impreparato e in cui davo molte cose per scontate. Dovevo liberarmi di molti preconcetti culturali.
Quando si associano le parole lavoro e bambino lo si fa sempre con una connotazione negativa e in maniera arbitraria qualifichiamo l’unione di queste due parole come inammissibile. Lo facciamo senza capire che ogni situazione è condizionata dall’ambito socio-economico e culturale che la circonda e che non si può giudicare con un parametro universale, e che per noi sembra il più giusto.
Sulla definizione di lavoro minorile è in corso da molti anni un accesissimo dibattito internazionale che ha tra i suoi principali interlocutori l’Organizzazione internazionale del lavoro (OIL), l’Unicef e i movimenti organizzati dei bambini e degli adolescenti lavoratori NATs (Niños/as adolescentes trabajadores).
Ognuno di essi ha occupato una posizione diversa sul tema. L’OIL e i suoi sostenitori, in maniera autoritaria, promuovono una visione completamente abolizionista. Il lavoro dei bambini e adolescenti è ritenuto negativo in tutte le sue forme e per questo deve essere abolito in maniera radicale. Non è un’attività per i ragazzi e non è neanche positivo per le loro vite. L’unica istituzione positiva per loro è la scuola, necessaria per la loro formazione e futuro. L’OIL per realizzare questo suo obiettivo emana convenzioni e organizza conferenze internazionali (l’ultima avvenuta nel 2010 all’Aja in cui non sono stati invitati i NATs) per sradicare questa piaga della società.
Una convenzione del 1973 si riferisce esclusivamente all’età minima di ammissione al lavoro e si afferma che essa non deve essere inferiore all’età in cui cessa l’obbligo scolastico, o in ogni caso, ai quindici anni. Si aggiunge poi che l’età minima di tutte le forme di lavoro che possano implicare un pericolo per la salute, la sicurezza o la moralità dei minori non dovrà essere inferiori ai diciotto anni.
In un’altra convenzione, la n. 182, adottata nel 1999, invece ci si concentra sulla proibizione di tutte le forme peggiori di lavoro infantile e si incita all’azione immediata per la loro eliminazione.
Tra queste forme di “lavoro” si indica: la prostituzione in tutte le sue forme, attività illecite per il traffico di droga, la schiavitù e la tratta dei bambini e tutti i lavori che potrebbero causare un danno alla sua salute, alla sicurezza o alla moralità.
Un’attività svolta per il raggiungimento dell’abolizione del lavoro minorile da parte dell’OIL è stata la creazione del programma Ipec (International program on the elimination of child labour). Questo programma è nato nel 1992 con la finalità di abolire il lavoro infantile in tutte le sue forme. Si inizia abolendo tutte le forme peggiori di lavoro per poi arrivare a eliminare ogni sua tipologia.
Diversa invece la posizione sostenuta dall’Unicef. Questa è una posizione più pragmatica che si può considerare come una rivisitazione della posizione abolizionista. L’obiettivo finale è l’abolizione del lavoro dei bambini, però considerando la difficoltà di abolirlo in ogni sua forma in tempi brevi è necessario, in primo luogo, agire per abolire le sue formi peggiori e migliorare alcune forme di lavoro che possono essere positive e utili per i ragazzi.
Questa visione è sostenuta anche da altre organizzazioni internazionali.
Un’ultima posizione quella sostenuta dai movimenti organizzati dei Niños e adolescentes trabajadores (NATs).
È la posizione della “valorizzazione critica”. Coloro che appoggiano questa visione credono che il lavoro dei bambini può essere positivo se si sviluppa in condizioni specifiche e non di sfruttamento. È positivo per l’educazione e la formazione dei minori, necessario per l’economia delle famiglie. Con il lavoro i bambini vengono considerati attori e soggetti sociali, protagonisti.
Non sempre il lavoro minorile ha un valore negativo, e di conseguenza non sempre è necessario abolirlo: gli stessi bambini molte volte hanno riferito che attraverso l’abolizione di ogni forma di lavoro le condizioni di vita possono addirittura peggiorare, perché considerando le condizioni economiche e socioculturali in cui vivono, il loro lavoro è necessario per sopravvivere e per affrontare le situazioni di ogni giorno. Abolendo tutte le forme di lavoro vengono costretti a cercare forme di lavoro illegale, invisibile, clandestino e notturno che può essere molto più pericoloso.
Di fatto è meglio cercare di appoggiare alcune forme che possono dare loro la possibilità di un futuro migliore e intervenire per toglierli dal lavoro di strada.
Le organizzazioni dei NATs si sono formate negli anni Settanta del Novecento, fortificandosi soprattutto negli anni Ottanta/Novanta in America Latina, Africa e India.
La prima organizzazione fu quella che nacque nel 1979 in Perù a Lima: il Manthoc (Movimiento de adolescentes y niños trabajadores hijos de obreros cristianos).
Queste organizzazioni aiutano i ragazzi lavoratori cercando di offrire loro la possibilità di svolgere un lavoro degno e protetto, che permetta di guadagnare qualcosa per aiutare economicamente le proprie famiglie, comprare alcune cose di cui hanno bisogno per la scuola e risparmiare anche per il futuro.
Un aspetto importantissimo di questo movimento è il concetto di protagonismo dei ragazzi.
Nelle organizzazioni i ragazzi sono i principali attori, possono esprimere le loro idee e opinioni senza interferenze da parte degli adulti. Eleggono i propri rappresentanti a livello locale, nazionale e internazionale per far sentire la propria voce, perché sono loro stessi che vivono in prima persona queste condizioni, che sanno quello che è giusto e quello che non è giusto riguardo al lavoro che svolgono. Sono loro i primi che possono migliorare la propria situazione.
Quello che chiedono è un “diritto al lavoro”, inteso come un dare loro la possibilità di lavorare in queste organizzazioni, nei movimenti affinché si realizzino in condizioni legali e protette. È facile mettere una foto di un bambino lavoratore incatenato con la parola STOP per giustificare la propria posizione. Contro la strumentalizzazione del lavoro infantile che promuove la OIL, i NATs stanno difendendo la propria vita, la propria dignità, il proprio protagonismo e stanno lottando per un mondo in cui saranno i principali attori nella presa di decisioni comuni che li riguardano.
I NATs definiscono quelle forme di lavoro, peggiori a detta dell’OIL, come la prostituzione, il commercio di droga, la tratta dei bambini e i bambini-soldato come dei crimini contro l’infanzia e perciò non vengono neanche tenuti in considerazione quando si parla di lavoro.
Durante la conferenza tenutasi all’Aja nel 2010, l’OIL si è prefissa come obiettivo di sradicare il lavoro minorile entro il 2016. A questa conferenza non sono stati invitati i movimenti internazionali dei bambini lavoratori attivi da più di 35 anni, dimostrando un grande passo indietro nell’approccio al problema da parte dell’Organismo internazionale, dato che negli anni 90 furono convocati alle conferenze tenutesi ad Amsterdam e Oslo.
Come ci si può arrogare il diritto di risolvere un problema senza analizzare a fondo la situazione, senza fare una riflessione approfondita su che cos’è il lavoro infantile e in quali forme si presenta e senza dialogare con i diretti interessati? Il discorso è ampio che avrebbe bisogno di molte pagine per essere sviscerato a fondo. Come infatti sta accadendo da tempo.
È necessario tenere in conto molti aspetti quando si analizza questo fenomeno che colpisce tutto il mondo. Come per esempio le condizioni economiche del Paese e delle famiglie, le culture, la vera causa del lavoro minorile.