Quel polveroso angolo di periferia

IMG_1798Attraversato strade dai nomi inconfondibili, Mao Tze Tung, Vladimir Lenin, Salvador Allende,.. con gli occhi costantemente incollati a quei vecchi palazzi in stile comunista, ingrigiti dallo smog e caratterizzati da minuscole finestrelle sbarrate da pesanti grate. La mondializzazione è arrivata fin qui: gli ingorghi sono gli stessi di qualsiasi altra città, le nuove architetture comparabili a quelle di tutto il mondo “avanzato”, le insegne luminose che pubblicizzano prodotti alimentari internazionalmente conosciuti non hanno nulla di nuovo,.. tutti particolari che contrastano con il clima, il colore locale, il degrado, l’originale maniera di indossare abiti dismessi provenienti dall’estero, tutto procura un irriducibile disorientamento. Parte dell’esotismo coloniale è completamente scomparso, il ricordo del passato trapela nei discorsi dei vecchi.
Lascio il centro di Maputo ed entro in quel cantuccio di periferia che sa già molto più d’Africa che a tratti sembra essere fermo da un incalcolabile numero di anni. Lo chapa (mezzo di trasporto semicollettivo da 9 posti utilizzato da privati dove vengono infilate anche 20 persone) si ferma in mezzo alla strada immobile nella colonna infinita di mezzi. Tra uno spintone e l’altro cerco di scendere indenne. Entro in quel quartiere fatto di terra, esili piante di mais, polvere, lamiere e tanto rumore, dove le regole, insieme al piano regolatore, non hanno ancora avuto accesso. Un teatro di compra-vendita di alimenti e oggetti di ogni tipo, insegne di barracas (piccoli negozi informali costruiti in lamiera o ricavati da vecchi containers) traboccanti di bottiglie di alcolici, regno dell’economia informale. Tutti mi guardano, escono dalle case per salutarmi, i bambini correndo mi seguono curiosi. Raggiungo l’asilo da cui provengono le grida festose dei bambini, dove il portiere-giardiniere-tuttofare riposa sdraiato all’ombra dell’imponente pianta di mango godendo della leggera brezza che fa muove le sue lunghe foglie. La mole di lavoro e la dedizione nel compierlo è qui direttamente proporzionale alla temperatura giornaliera. Oggi fa molto ma molto caldo! Oggi il nostro portiere-giardiniere-tuttofare sembra non si stancherà molto.
Fuori è subbuglio, agitazione, fermento ancora fresco da elezioni municipali. Non esiste muro libero da manifesti riportantila propaganda politica del partito di maggioranza ( o unico?) non esiste donna che non porti appresso una capulana (panno tradizionale in cotone stampato che le donne utilizzano per il trasporto dei bambini, come gonna e per molti altri usi) o vecchio con indosso una maglietta con lo stemma dello stesso. Un Mozambico coccolato dalla globalizzazione, sempre più terra di investitori stranieri attirati dalla politica permissiva e dalle grandi opportunitá di affari, un paese in bilico tra l’apertura e l’attaccamento alle vecchie tradizioni, a volte chiuso nella sua arretratezza ma desideroso di equipararsia paesi capitalisti. Un Mozambico fresco di indipendenza e di ricordi di sottomissione e supremazia straniera.
Dentro all’asilo è solo spasso. I giochi più in voga tra i bimbi di 5 anni sono molti: c’è chi si stacca le treccine di capelli sintetici, chi schiaffeggia freneticamente il vicino di sedia, poi quello meno vicino e così via generando una catena, chi sottrae i tappi delle bottiglie di refresco (bibite) e pretende di usarli come macchinine, chi ruba il bastone della maestra e lo sbatte sulla ex tanica di olio in centro all’aula, chi urla “tia tia” (educatrice, ma anche zia) seguito da monologhi infiniti e incomprensibili o chi ancora spinge la minuscola sedia per tutta l’aula generando un chiasso tremendo. Dentro all’asilo a metà mattina c’è il mata bicho (colazione ma letteralmente “ammazza insetto”) super nutritivo, dopo il gioco e poi il pranzo con arroz e fejao (riso e fagioli), poi segue il riposino sulle stuoie intrecciate a mano, poi l’impresa di allacciarsi le scarpette nel verso giusto per tornare a scorrazzare nel cortile. Quando poi l’educatrice prende la decisione avventata di accendere la musica la situazione diventa ancor più confusionale: bimbetti che si muovono in ogni angolo, dettati da un ritmo interpretato in quel modo così naturale quanto malizioso, scorrazzanoa destra e manca senza controllo alcuno.
Qui non esiste bianco e nero. Solo bimbi dagli occhioni enormi e io un po’ pallida, con lunghi capelli (veri!!) che fanno gola alle educatrici e costituiscono motivo per improvvisare un salão de beleza (parrucchiera-estetista) gestito dalle più piccole allieve.
Fuori c’è quel mostro della lixiera (discarica a cielo aperto). Fa paura ma allo stesso tempo ci si è attratticome api al miele. È allo stesso tempo centro di vita e di morte. Un ingorgo colossale si forma ai suoi margini. Dentro è un lavorio continuo sotto il sole cocente, faticoso, sfibrante, di corpi in movimento che spostano, cercano, rovistano, ripuliscono, buttano cose e cose e ancora cose. sono donne, uomini, bambini. Giovani e vecchi. Più disperati e meno disperati. Nuovi al lavoro e veterani. Sani e malati.
Ma i bimbi cosa ne sanno? I bimbi non sanno che l’asilo è stato costruito proprio li per loro da una ong ONG italiana LVIA che ha cercato fondi, che ha lavorato tanto, che ha investito tempo e conoscenze. I bimbi non sanno che l’intento è quello di preservarli dal mostro della lixiera (discarica), di creare un ambiente adatto a loro e alla loro crescita cognitiva e sociale. I bimbi non sanno dei problemi che la lixiera crea alla loro salute, alla loro sicurezza, al loro ambiente. I bimbi solo vogliono andare all’escolinha per giocare liberi con altri bimbi.
Torno a casa tutta impolverata e accaldata reduce da una giornata intensa e chiassosa e solo ricerco silenzio, quello spazio dove mettere in ordine la voragine di domande che mi si fanno dentro. Ma quel silenzio è solo un miraggio visto che è venerdì e appena sotto casa la barraca è già piena di gente chiassosa che beve birra e ascolta musica a tutto volume.
E poi arriva la notte, quella profonda, che con il suo velo scuro copre tutto. Ora sembriamo un po’ tutti più simili, un po’ tutti fratelli, forse ci rimane un momento per mettere da parte ciò che divide e far risaltare ciò che unisce. E la vita non si arresta, anzi continua se possibile con lo stesso ritmo frenetico del giorno.

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