“Ciò che non si percepisce, o che si percepisce male, è che l’Africa è sicuramente il solo continente ancora in grado di produrre relazioni sociali o, più precisamente, di innovare in campo sociale. Il continente Africano fabbrica l’antidoto sotto i nostri occhi, ma noi non lo vediamo. La vitalità proteiforme del continente nero, un giorno, potrebbe dar vita al miracolo africano. Non si tratta di una certezza, soltanto di una scommessa e di una speranza, fondate tuttavia su precise ragioni”. P. Engelhard
Una terra che non conosco, dove nessuno mi conosce. Mi ritrovo in un mondo parallelo, nuovo per me, ma sempre esistito, dove gioco a cercare somiglianze e differenze dal mio universo, da tutto quello che conosco, da quello che rappresenta casa. Si di quell’Africa che vedi in televisione, leggi nei libri, scorgi sui giornali, nelle cartoline di auguri che promuovono raccolte fondi. La mia prima Africa.
Colmo gli occhi di questi nuovi paesaggi, colori, persone. Le mie orecchie si riempiono di una nuova lingua, di nuovi dialetti incomprensibili, musiche tamburellanti. Dal finestrino dello chapa (tipico mezzo di trasporto locale privato che supplisce l’assenza di trasporto pubblico) che sfreccia veloce nel traffico disegnando giocose gincane, il mio sguardo attento scruta ogni singolo particolare quasi volesse incollarlo per sempre nel ricordo di questa Africa tutta da scoprire. Viaggio ancora a stereotipi dati da anni di documentari e pretenziose immagini sui nimni dell’africa. Ancora mi meraviglio. Mi stupisco ad ogni angolo.
La mia curiosità rompe gli schemi e se ne va a spiare la vita degli altri, la quotidianità in tutte le sue sfumature, in tutte le sue forme nascoste, attraverso le porte spalancate tra l’intimità delle mura di casa, nei cortili polverosi all’ombra degli alberi dove donne intrecciano, pettinano, aggiungono capelli a piccole donne di domani. Donne che lavorano instancabili sotto il sole, vendono, lavano. Donne che camminano portando i loro piccoli sul dorso, allacciati con colorati tessuti. Le donne piegate in quella posizione improponibile. Sembrano doversi spezzare nell’abbassare il busto ma poi le vedi ricomporsi nell’atto di tornare alla posizione eretta. Le capulane colorate (tessuto tipico locale) accompagnano il loro dondolio perenne che più che ad un’andatura sembra una danza nostalgica. I fazzoletti legati sulla testa proteggono dal sole e dall’insopportabilmente caldo, ma anche nascondono capigliature tra le più svariate.
E gli uomini? Intaccati dalla piaga della mancanza di un lavoro formale o informale che sia, accompagnano lo scorrere del tempo agli angoli delle strade, intrattenendosi con il tcuma (gioco da tavola tipico e diffuso nella zona Sud del paese) o ancor meglio appollaiati su seggiole di fortuna bevono birra. I più attivi improvvisatisi sarti, ciabattini e barbieri aspettano clienti sulla soglia della baracca o accoccolati per strada.
I mercati caotici trasbordano di frutta, verdura, galline, capre, vestiti, scarpe, oggetti usati. Tutto serve. Tutto si può aggiustare e rivendere e riutilizzare. Ma tutto una volta reputato inutile viene lasciato per strada, lanciato selvaggiamente da un finestrino di un’auto in corsa. Tutto brulica, respira, suona, ride, urla, odora, vive. Tutti indaffarati a sopravvivere. Tutti si voltano quando passi. Tutti ti salutano, tutti tisi avvicinano con una scusa o un’altra. Tutti parte di una società promiscua, instabile, multiculturale, multi religiosa, tradizionale, poco innovativa, troppo diversa, divergente, sonnambula, calda, meticcia.
Tutti aspiranti di una frugale agiatezza in questo contesto dove vendere, acquistare, prestare, noleggiare, rimborsare, recuperare, spillare soldi ai parenti, imbrogliare, mendicare è lecito per procurarsi il denaro, che rappresenta la vera divinità onnipresente.
Catadores, cachivaceros, cartoneros,.. nel mondo e nelle lingue hanno nomi diversi, ma ricoprono lo stesso ruolo in ogni dove, condividono la stessa missione in parti opposte del globo. Conservano la speranza un giorno di guadagnare anche loro un titolo onorario come “operatore ecologico” e un riconoscimento ufficiale.
Li riconosci soprattutto dalle scarpe: deformate, stanche, sporche, spaiate. Deformate perchè di precedenteproprietà di qualcun altro. Stanche come il passo di coloro le portano a spasso, trascinando i piedi uno dietro l’altro per chilometri e chilometri, per la città e la periferia. Spaiate perche spesso è la lixera (discarica a cielo aperto) a tirarle fuori. Sporche perche nella lixera si può calpestare di tutto ma proprio di tutto. Con un colpo di fortuna si trova anche qualcosa di utile, di gettato via per sbaglio o noia, che può trasformarsi in qualcosa da usare o da rivendere o da regalare chissà. C’è anche qualcosa che torna utile aguzzando l’ingegno, quell’ingegno di chi deve costruirsi alternative dal nulla, di chi non conosce alternativa al niente, di chi conosce l’arte di arrangiarsi e con un cartone del latte fa un portafoglio.
Ma le protagoniste della mia storia sono proprio loro: le donne. Alla Comsol, nascente cooperativa di riciclaggio, non solo si rovista fra il lixo (spazzatura) ma tutta l’equipe al completo munita di uniformi ben pulite e con quei carrettini distintivi, passa la mattina per le strade dei quartieri alti a suonare ai campanelli delle case e chiedere se c’è del materiale da raccogliere. Poi si torna alla base e si seleziona il materiale riciclabile, si pesa e si vende il prodotto frutto di tanti passaggi. La Comsol è vita vera, quotidiana. Uno squarcio di quell’Africa povera e di un consumismo standardizzato che convivono nello stesso fazzoletto di terra.
In Comsol si mischiano almeno due lingue (portoghese e changana lingua locale della regione Sud del Mozambico) e si impara a leggere e contare, si condivide un semplice cha con pão (té e pane) e tante chiacchere e pettegolezzi, si scherza, si sorride e si canta. Si sorride davanti a quella montagna di sporcizia che noi produciamo e loro raccolgono. Che per noi non vale nulla, ma per loro vale qualche metical (moneta locale) al kg.
Grazie al progetto realizzato dalla ONG LVIA e che ha fatto sorgere la Comsol, firmare per queste donne non è più un problema, anzi ora è un’operazione che si fa con scioltezza e motivo di molto orgoglio. Ora pesare la merce sulla bilancia non è più cosi difficile, i numeri non sono più vuoti simboli incomprensibili. Addirittura c’è chi sta studiando per prendere la patente anche se si ritrova a dover leggere un manuale portoghese con simboli di “attenzione suolo ghiacciato” o “caduta neve”.
Di problemi ce ne sono tanti e tanti ancora sul cammino della piccola cooperativa che con tanti sforzi si sta cercando di costituire, dalle difficili relazioni con il vicinato, alla sensibilizzazione complicata delle municipalità che sembra sminuire il problema,.. ma tutto svanisce di colpo, nel momento che ascolti i canti e le risate di queste donne lavoratrici, che insieme con l’aiuto reciproco cercano di uscire dalla loro precaria situazione economica e sociale.
Allora in questi momenti si capisce il senso del tutto.