Pedalando verso la tradizione…

Qualche settimana fa sono partito per Bubaque, sull’arcipelago guineense delle Bijagòs, un insieme di selvagge e lussureggianti isolette al largo di Bissau in compagnia di Seminario, un ragazzo del luogo che mi ha accompagnato alla scoperta dell’isola e delle sue tradizioni.

Dopo aver fatto un giro esplorativo nel centro di Bubaque, Seminario mi ha parlato un po’ della cultura Bijagós, dicendomi che per mia fortuna proprio quel giorno durante le prime ore pomeridiane si sarebbe svolto un funerale tradizionale nella tabanca – villaggio – di Ancamona. Intorno alle 14 passa a prendermi e sulle nostre bici ultimo modello sfrecciamo verso la tabanca. Durante il tragitto i bambini mi urlano “Branco, brancooo!!”, l’asfalto è ormai quasi inesistente e le buche che sarebbe meglio definire crateri, rallentano il nostro percorso. Dopo più di un’ora, ormai esausto sotto i quaranta gradi di sole cocente africano, Seminario, ancora arzillo, mi fa capire che stiamo per arrivare: ringrazio la terra e finalmente svoltiamo a destra raggiungendo la tabanca.

Appena sceso dalla bici una dozzina di bambini, alcuni in pantaloncini altri semi nudi, mi sciamano intorno chiedendomi monete, palloni, penne e tutto ciò che indosso: un classico! Il buon Seminario con due parole in creolo li caccia e loro fuggono nel giro di un nanosecondo. Ci avviamo finalmente verso la capanna dove sta per iniziare il tanto atteso rito funebre. Io unico bianco: mi guardano tutti come se fossi un alieno, sicuramente si chiederanno che ci faccio lì con loro durante una celebrazione tradizionale e in effetti me lo chiedo anch’io. Più di cinquanta persone sono radunate sotto il benten, una costruzione temporanea di canne e foglie di palme costruita appositamente per il rito. Durante tutta la mattina avevano lavorato due squadre di uomini, una per scavare una tomba di due metri per il defunto e l’altra per costruire il benten.

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A ridosso della porta di casa vedo un cumulo di terra: il defunto verrà seppellito proprio dentro casa affinché tutti i giorni i familiari sentano vicina la sua anima. Dall’ingresso della casa una fila di conchiglie segna il percorso fino al punto stabilito per la sepoltura. La cultura bijagós non ha cimiteri: i familiari defunti vengono posti dentro casa o a ridosso di questa, a seconda del grado di parentela che li lega, così l’anima del defunto può continuare a vivere vicino ai propri cari.

Inizia il rito: i quattro uomini più anziani e il regolo – il capo villaggio – cominciano a suonare due grossi strumenti in legno chiamati bombolão, che hanno la duplice funzione di invitare la gente del villaggio a partecipare al rito e di mettere in comunicazione il regolo con la divinità chiamata Irán. Sotto il benten ci sono quindi tre statue sacre dalle figure grottesche che raffigurano il dio, i bombolão, quattro ceste con delle piccole e rinsecchite galline, due caprette spaesate attaccate ad un palo e tutt’intorno disposta in cerchio la folla di gente. I tamburi cominciano a suonare, il capo villaggio recita alcune formule invocando l’Irán, nessuno dice una parola, una quiete cala su tutto il villaggio, rotta ogni tanto da un litigio tra cani o da un gallo che fa le prove generali per l’alba.

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Il rito è iniziato, due anziani prendono una gallina e picchiettando il suo becco sulle statue dell’Iran e su di un recipiente di legno chiamato cabaça, invocano l’Iran e lo interrogano sulla causa della morte del defunto. Improvvisamente le staccano la testa con un taglio netto, il corpo della gallina senza testa continua a starnazzare a destra e manca fino ad abbattersi ai loro piedi. Il mio amico mi spiega che dal movimento della gallina rispetto agli oggetti sacri posti nel benten, il regolo e gli anziani riescono ad interpretare la causa della morte del defunto: se infatti, mosso dai suoi ultimi istinti vitali, il corpo starnazzante va a toccare la cabaça, il responso sarà di morte violenta dovuta ad una lotta o ad una lite; se invece la gallina va a toccare la statua dell’Irán, ciò vuol dire che prima di morire il defunto ha commesso una qualche violazione delle tradizioni del villaggio; se non tocca nulla significa che la morte è sopraggiunta per malattia. In questo caso il rito ha dimostrato che il defunto soffriva di qualche malanno. Inizio a sudar freddo e loro continuano il rito con altre sette o otto galline. Dopo aver ricevuto la risposta richiesta, davanti alle statue del dio vengono sacrificate anche due capre il cui sangue viene raccolto con una tovaglia bianca lasciando sul suolo delle macchie rosso scuro. Nel frattempo un recipiente in legno viene passato di mano in mano con al suo interno la comida tradicional, una mistura sacra di riso, acqua e olio di palma che viene condivisa tra i partecipanti al rito e mangiata direttamente con le mani dalla ciotola. Una parte di questa pietanza ritenuta sacra viene invece riservata per il defunto e posta vicino a lui all’interno della sepoltura. Oltre a questo cibo sacro, viene preparato del riso servito con la carne degli animali appena sacrificati.

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Così finisce il rito e prima di andar via, con mio stupore, vedo venirmi incontro il regolo e gli altri anziani del villaggio che mi stringono la mano, in segno di rispetto e deferenza facendomi sentire parte di quella così antica comunità, piena di tradizioni inizialmente difficili da comprendere per un bianco, esterno a questa cultura ricca di fascino e di storia.

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