50 sfumature di lavoro

I mesi passano veloci, ne manca uno alla fine del progetto e mi pare che sia arrivato il momento di togliere l’armatura che mi ero in qualche modo buttata addosso l’anno scorso di questi tempi. Non che sia andata in guerra, anzi. È a livello cerebrale che non trovo pace, cioè ho difficoltà a prendere una posizione riguardo al tema del mio percorso in Perù: il lavoro minorile.

Il fenomeno esiste a livello globale ma è uno di quelli che in Europa, almeno a noi under 30, ci toccano da vicino solo quando sentiamo parlare i nonni della loro infanzia, o se ci capita di rileggere Oliver Twist. Nonostante questo, o forse proprio per questo, nei Paesi del “Primo Mondo” l’opinione pubblica ha una sola voce: contro! Sorprendentemente, il dibattito tra Nord e Sud del mondo si è riacceso pochi mesi fa quando, in Bolivia, Evo Morales ha abbassato l’età minima per poter lavorare legalmente a 10 anni, come richiesto dall’ Unatsbo (Unión de Niños y AdolescentesTrabajadores de Bolivia). Raro che un governo si distacchi dalla linea dettata dall’Organizzazione Internazionale del Lavoro, ma tranquilli, in Perù non ci sono di questi problemi: un giorno mi venne la felice idea di passare al Municipio a chiedere l’autorizzazione per partecipare a una feria con i bambini e mi si rispose cortesemente che se ero venuta per infrangere la legge potevo anche andare…in qualche altro posto. Ovviamente, lo scandalo si fa solo in occasioni formali o nell’orario di lavoro, se poi un bambino mi serve il pranzo al ristorante non importa, la fame è fame!

Lungi da me infilarmi in questa diatriba col fine di proporre un punto di vista illuminato, il discorso è di quelli che non se ne esce e io, solo una che ci si è trovata in mezzo e si sente di raccontare quello che ha visto e pensato. Mi riferirò solo ai bambini tralasciando gli adolescenti perché qua a 13/14/15 anni sei già quasi adulto, non solo è normale iniziare a lavorare ma anche a fare figli, a occuparsi della casa, dei fratellini, ecc.

Volendo impostare una riflessione seria, per iniziare,dovremmo mettere dei paletti fra “lavoro” e “sfruttamento”, dato che non sono proprio la stessa cosa – a volte, al giorno d’oggi – e quando ci sono di mezzo i minori si tende quasi a usare i due termini come sinonimi. Chiedendovi, dunque, lo sforzo di non immaginarvi esserini che cuciono palloni in un capannone per 22 ore al giorno, provo a delineare un quadro il più completo possibile rispondendo a un sacco di

FAQ

1)   In che situazione economica si trova il Perù?

Iniziando con i numeri, da un po’ di tempo il Paese cresce a ritmi del 6-7-8% annuo. Questo per quanto riguarda l’economia formale. Considerando che più della metà del mercato del lavoro peruviano sguazza nell’informale e nell’illegale, ovvero le due economie che crescono di più, andiamo alla grande.  Senza dubbio ci sono possibilità per tutti: chi ha studiato diventa professionista, gli altri fanno quello che vogliono/ possono: i più preparano cibo in casa e lo vendono per strada, ma si può trovare di tutto. Una volta ho visto uno che vendeva in giro termometri da parete (utili a Puno, dove è sempre inverno e le case non hanno i riscaldamenti).

2)   E l’educazione?

Nota dolente. Ci sono differenze di livello abissali fra le varie regioni, fra città e zone rurali, fra scuole pubbliche e private, fra scuole pubbliche decenti e scuole pubbliche disastrate. I professori, pagati poco, raramente preparati, e spesso impegnati in altri lavori per arrotondare, rappresentano solo uno dei problemi. Riguardo agli studenti, il Perù è ultimo nel ranking PISA e, sinceramente, si vede. Non capisco perché ancora mi meraviglio quando sbagliano a fare i resti…

3)   Quali sono le condizioni di lavoro?

Parlando del sottobosco dei lavoretti informali, che è quello che ci interessa, praticamente non ci sono regole. Orari: de sol a sol (dall’alba al tramonto, se è nuvoloso anche dopo). Prezzi: il meno possibile, anche se ci si va in perdita, l’importante è reggere la concorrenza. Livelli di igiene: NC. Praticamente, una giungla. La cosa buffa è che in pochissimi casi si tratta di gente che fa la fame, si vive per lavorare un po’ come stile di vita. Capite bene che in questi casi, un bambino che sta qualche ora al banchetto con la mamma non vi dirà neanche “sto lavorando”, al massimo “aiuto mia mamma”, scordandosi di aggiungere “altrimenti la vedrei solo 5 minuti la mattina prima di andare a scuola”. Insomma, magari occupiamoci anche della mamita che lavora 15 ore di fila, no?

4)   Che valore hanno i soldi? e il risparmio?

I soldi sono tutto. Dio. Altro che Pachamama. Per questo vale la pena lavorare fino allo stremo delle forze, se resisto un’altra oretta magari altri 2 o 3 soles me li faccio. Il problema è che se ne guadagno 3 ne spendo 4 (per l’appunto una birra da 600 cl costa 4 soles), e si parla di gente che non ha uno stipendio fisso, spesso indebitata e con mandrie di figli e nipoti a carico.

5)   Perchè esistono ONG e movimenti che cercano di proteggere il lavoro minorile?

Non solo in Sudamerica, esistono anche in Africa e Asia. Com’e possibile che non la pensino come noi? Così a occhio, potremmo azzardare che, metaforicamente, non pensano di poter salvare una gamba in cancrena amputando le dita dei piedi. In 5 punti ecco quello che vogliono:

  • prendere atto di situazioni di povertà e diseguaglianza, per cui il lavoro non può essere abolito ma diventa un valore necessario;
  • promuovere leggi per i diritti dei minori al fine di garantire loro di poter svolgere un lavoro degno e preservarli dallo sfruttamento;
  • pensare al lavoro come fattore del processo educativo, non si tratta di un sostitutivo;
  • istillare una mentalità imprenditoriale e un minimo di cultura del risparmio dove non sono neanche lontanamente concepite;
  • promuovere il protagonismo dei NNATs (niños niñas y adolescentes trabajadores) attraverso la loro organizzazione a livello locale, regionale e nazionale.

joven

In tutto questo fa capolino un vago sospetto di essere vittime di un nuovo colonialismo, che non deve essere bello.

6)   Un identikit del perfetto niño trabajador?

Età diciamo dagli 8-9, ha minimo 3 fratelli/sorelle, la mamma ha un banchetto di qualcosa per strada o al mercato (il papà di solito non c’è). Frequenta una scuola pubblica a bassa retta, nel tempo libero aiuta in casa – chissà se questo è un lavoro- e poi corre a dare una mano a vendere. Nella migliore delle ipotesi ha ricevuto un prestito formativo da qualche ONG come Ifejant, ha potuto iniziare un’attività propria, dopo aver stilato da solo il business plan, e vende i prodotti da lui stesso preparati (cioccolatini, golosinas, granite, succo d’arancia, ecc.). Per esempio, questo è Luis: https://www.youtube.com/watch?v=e-9IikENlJ0

7)   In che consiste il progetto Prominats?

Dopo la teoria, passiamo alla cruda realtà. Sarebbe bellissimo se i punti sopra citati trovassero un riscontro nella quotidianità, un modo di unire l’utile all’utilissimo. Purtroppo siamo abbastanza distanti da questa bella utopia, almeno stando alla mia esperienza e, mi permetto, a quelle sentite dai miei compagni.

Dato che ci sono, approfitto per rassicurare chi in quest’anno, volendo sapere cosa stavo facendo in Perù, ha risposto al mio “lavoro in un progetto di microfinanza per bambini lavoratori”, il Prominats appunto, con un istintivo “ma che fai, li sfrutti?”. Non li sfrutto, anzi.

Sulla carta, i compiti che ho all’interno della mia scuoletta elementare sulle Ande sono:

  • seguire i bambini che hanno chiesto un prestito per iniziare un loro negocio, fare in modo che eleggano i loro rappresentanti,  che formino un gruppo e si riuniscano periodicamente come sindacalisti navigati;chocotejas
  • accompagnare ogni classe nell’attività settimanale di produzione e vendita di chocotejas, che sarebbe il famoso laboratorio di lavoro + educazione (lezioni su norme basiche di igiene, matematica, risoluzione di problemi…) che scaturisce dall’impianto teorico di cui sopra;
  • seguire i NNATs nel loro lavoro dopo scuola.

I risultati sono stati alquanto discutibili per il semplice fatto che i “miei bimbi”, ai quali voglio tanto bene lo stesso, dei bambini lavoratori descritti al punto precedente hanno veramente poco. A quanto pare, di Luis non ce ne sono tanti in giro. Inoltre, ricollegandoci al punto 4, vi immaginate voi una mamma tipo questa (carissima signora, fra l’altro)

mamitache può mettere le mani su un prestito di non tantissimi soldi, ma con pochi interessi, da ripagare a rate con scadenze iperflessibili…e lo lascia alla figlia?

Ieri, però, sono andata al mercato e ho comprato il formaggio da una ragazzina di 12 anni, la frutta da una di 11 e i pomodori da una signora con figlio di 8.

8)   E allora?

Allora chi non prende il prestito lavora, e chi lo prende no? Non lo so, può darsi, magari non sempre. Forse andrebbero scelti più accuratamente i beneficiari. Comunque, il fatto che il Prominats potrebbe essere uno strumento valido, se usato meglio, ma attualmente zoppica, non significa che i bambini non debbano assolutamente lavorare.

Come avrete sicuramente inteso, non si parla di bambini che lavorano in miniera o della piccola fiammiferaia, non perché non esistano ma io, sinceramente, non li ho visti. Lasciando perdere questi casi – che credo siano seguiti più facilmente da progetti sulla tratta di persone, rimangono alcune domande irrisolte: cos’è un lavoro degno? vale la pena che un bambino lavori per guadagnare pochi spicci al giorno? o è bene che inizi a vedere almeno come si fa perché possa gestirsi da solo quando sarà un adolescente lavoratore?

Per il sollievo di tutti, non provo neanche a rispondere e mi fermo qui. Mi scuso con chi ha letto queste 16 pagine sperando di trovare in fondo la geniale soluzione al problema o la conferma delle sue idee. In realtà, volevo solo confondervi un po’ e confidarvi cosa ho davvero imparato quest’anno: a correre il rischio di stingere le opinioni in bianco e nero. A volte non capisci più che colore è venuto fuori ma non importa, prima di giudicare devi provare.

prominats

Questo articolo è stato pubblicato in Children: right to future!, Perù e contrassegnato come , da Francesca Berti . Aggiungi il permalink ai segnalibri.

Informazioni su Francesca Berti

Nata e cresciuta in un paesello sperduto nella campagna senese, non esattamente collegato con il resto del mondo, sviluppa presto una certa propensione a costruire ponti. Purtroppo l'ingegneria edile non è il suo forte, allora pensa di diventare lei stessa un ponte: si lancia sull'insegnamento dell'italiano a stranieri, si laurea e inizia a "edificarsi" in alcuni punti del globo. Attualmente cerca tasselli mancanti in America Latina.

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